Per riuscire a dare una definizione di trauma psicologico scelgo innanzitutto di partire dall’origine delle parole. Sia la parola “trauma” che “psiche” derivano entrambi dal greco. Trauma (uguale sia in italiano che in greco) viene tradotta dal greco con i significati di “danno”, “lacerazione”, “ferita”; con la parola psichè si fa riferimento invece al concetto di anima. Per cui, potremmo iniziare a dire che con trauma psicologico ci si riferisce alle “ferite dell’anima”.

Diagnosi secondo il DSM

Per il DSM il trauma psicologico è innanzitutto “l’esperienza personale diretta di un evento che causa o può comportare morte o lesioni gravi, o altre minacce all’integrità fisica” (APA 1994). A questo concetto di trauma psicologico, vanno affiancati anche gli aspetti relazionali: minacce gravi non all’integrità fisica di un organismo ma al suo tessuto relazionale, per cui viene considerato trauma “l’essere presenti a un evento che comporta morte, lesioni o altre minacce all’integrità fisica di un’altra persona; o il venire a conoscenza della morte violenta o inaspettata, di grave danno o minaccia di morte o lesioni sopportate da un membro della famiglia o da altra persona con cui si è in stretta relazione” (APA,1994). A questa definizione, manca però ancora una parte cruciale: il percepito del soggetto. Il trauma è sì qualcosa di oggettivo, ma la percezione che ne ha il singolo individuo è parimenti importante. La risposta al trauma comprende “paura intensa”, sentimenti di impotenza o di orrore”. In particolare, la sensazione di impotenza, di non saper far fronte all’esperienza traumatica, appare cruciale nella definizione di trauma. In questo senso, come scrivono Liotti e Farina, il trauma è definito come un evento emotivamente non sostenibile per chi lo subisce (Liotti G., Farina B., 2011).

Cercando di tirare le fila di tutto, sembra chiaro che per dare una definizione di trauma psicologico è necessario sia l’evento traumatico (o gli eventi traumatici), ma è altrettanto importante il soggetto che subisce il trauma, perché da quell’esperienza si genera poi la percezione soggettiva cui il soggetto attribuirà dei significati. Quindi, se volessimo rispondere alla domanda apparentemente banale “Ma i traumi sono uguali per tutti?”, la risposta sarebbe ben più articolata. Gli studi dimostrano che alcune esperienze traumatiche dal punto di vista emotivo creano nelle persone le stesse reazioni e sintomi, ma la risposta a tali eventi cambia da persona a persona. Ognuno di noi è potenzialmente vulnerabile ad un evento traumatico, qualunque sia la nostra personalità o il nostro funzionamento personale. Ma, allo stesso tempo, ognuno di noi attraverso le proprie risorse (tra le quali cito anche quella di chiedere un aiuto professionale adeguato), può superare queste esperienze e quindi ritornare alla vita di prima o addirittura crescere da un punto di vista personale ed esperenziale.

Altra domanda che mi viene spesso fatta: “Ma i traumi sono tutti uguali?”. Volendo fare una classificazione dei traumi psicologici, potremmo pensare alla suddivisione tra “piccoli traumi” o traumi con la “t” minuscola e “Traumi grandi” o con la “T” maiuscola. Ci riferiamo alla prima tipologia quando pensiamo alle cose drammatiche che ci possono accadere che tuttavia non minano la nostra sicurezza personale e non minacciano la nostra vita o quella di altri a noi significativi (subire un’umiliazione in pubblico, essere licenziati, litigare con il vicino, etc…). Tuttavia, se questi traumi con la “t” minuscola si ripetono nel tempo talida diventare dei traumi multipli come nel caso dei traumi dello sviluppo, possono risultare altamente disturbanti. Per trauma con la “T” maiuscola ci si riferisce ad un evento che porta alla morte o minaccia l’integrità fisica, propria o delle persone care (omicidi, aggressioni, gravi incidenti stradali, lutti improvvisi o inaspettati, terremoti, attentati terroristici, guerre, tsunami, stupri etc.).

Per rispondere a questa domanda, è utile riprendere in mano il DSM. Nella sua ultima edizione del DSM V è importante notare come la diagnosi dei disturbi correlati a aventi traumatici e stressanti è

‘unica diagnosi che tiene conto della sua eziologia, il trauma appunto. Tra questi disturbi troviamo il Disturbo reattivo dell’attaccamento, il Disturbo da impegno sociale disinibito, il Disturbo da stress post-traumatico (PTSD), il Disturbo da stress acuto, i Disturbi dell’attaccamento. Per cui, rispondendo alla domanda, chi è esposto ad un evento stressante, può sviluppare uno dei disturbi sopra elencati.

Il PTSD è il disturbo più comunemente sviluppato in seguito ad un’esperienza traumatica.
Per poter fare diagnosi di PTSD, oltre a quanto scritto nella sezione “Diagnosi secondo il DSM”, è importante che siano rispettati anche degli altri criteri diagnostici, quale per esempio il criterio “b” che presuppone la presenza di sintomi intrusivi (ricordi, flashback,); il criterio “c” pone l’accento invece sui meccanismi di evitamento dell’evento stressante o di qualsiasi cosa riporti all’evento stesso; al criterio “d” troviamo l’alterazione dei pensieri negativi legati all’evento traumatico; le accentuate alterazione dell’arousal fanno invece parte del criterio “e” per cui la persone può avere un elevato livello di vigilanza oppure degli scoppi d’ira improvvisi; anche la durata rientra tra i criteri “f”, per cui è necessario che le alterazioni abbiano una durata superiore ad 1 mese; infine troviamo la compromissione sociale, relazione e lavorativa al criterio “g” e il fatto che queste alterazioni non siano dipese dall’assunzione di sostanze (alcol, farmaci o droghe) al criterio “h”.

Oltre al PTSD, in seguito ad un evento traumatico si possono manifestare sintomi e disturbi dissociativi di depersonalizzazione(sentirsi distaccati dai propri processi mentali come se si fosse un osservatore esterno al proprio corpo) e derealizzazione (persistenti o ricorrenti esperienze di irrealtà dell’ambiente circostante).

Trauma e dissociazione sono strettamente collegati in psicopatologia. Cercando di trovare per il lettore un collegamento a questo rapporto, ci torna utile esplicitare cosa succede quando un individuo vive un esperienza traumatica. Il trauma attiva dei meccanismi di difesa cosiddetti arcaici (immobilità, freezing, attacco o fuga, finta morte) che hanno lo scopo di preservare l’assetto mentale della persona che sta vivendo il trauma. Lo fanno però creando un distacco dall’usuale esperienza di sé e del mondo esterno e questo avrà come conseguenza la dissociazione, dal momento che questo distacco sospende l’esercizio delle normali capacità di riflessione e mentalizzazione perché in quel momento l’urgenza per la persona è rimanere vivi, sia dal punto di vista fisiologico che mentale. In pratica, l’organismo raccoglie tutte le forze che ha disposizione per sopravvivere e cerca di farlo nel migliore dei modi. Ci verrebbe molto più facile pensare alla normale risposta corporea se pensiamo a cosa faremmo noi di fronte ad un evento che per noi è solamente urgente. In questo caso, le nostre capacità mentali confluirebbe tutte verso l’unico scopo che è restare vivi e questo andando in una sorta di risparmio energetico: le energie in questo caso che si spengono sono quelle mentali superiori (ragionamento, memoria, attenzione, linguaggio etc…). Tutto ciò porta (ci si augura!) al raggiungimento dello scopo “salvare la pelle”, ma spesso la parte di noi che in quel momento abbiamo spento (ma che ha comunque vissuto l’esperienza traumatica) rimane distaccata, dissociata appunto. “Da tale dis-integrazione in tante parti delle memorie traumatiche rispetto al normale flusso continuo dell’autocoscienza e della costruzione di significati deriva la frammentazione delle rappresentazioni di sé, o meglio la molteplicità non integrata degli stati del’io, che caratterizza la dissociazione patologica” (Liotti G., Farina B., 2011).

Lasciando per un attimo da parte il trauma e il trattamento di questi, in generale sono sempre più portato a pensare nel corso del mio lavoro che non esista un manuale di istruzione cui il terapeuta può affidarsi per aiutare il paziente nell’unico obiettivo che porta in terapia: stare meglio.
Mi accorgo sempre più che diversi pazienti tirano fuori risorse differenti e parti di noi terapeuti che in quel dato momento funzionano all’interno di quella relazione significativa.

Se il lettore mi concede un parallelismo con la danza, il terapeuta è un pò come se fosse portato a conoscere (per sua formazione professionale e personale) tanti modi e stili di ballo, da adattare ad ogni paziente e/o allo stesso paziente nelle diverse sedute.
Per mia formazione e per le scelte che man mano ho preso nel corso dei miei studi, sono arrivato alla consapevolezza profonda che l’elemento più importante dal punto di vista terapeutico sia la relazione che intercorre tra paziente e terapeutico. Ed è all’interno proprio della relazione, di questa cornice relazionale, che terapeuta e paziente possono “provare” vari tipi di ballo e cambiare passo o stile, se il momento o lo spazio lo suggerisce. Ma se non si ha una buona alleanza terapeutica, se i movimenti sono rigidi e non fluidi, il terapeuta rimane un mero tecnico e il paziente un cliente con la possibilità solo di un cambiamento che Bruno Bara definisce come superficiale.

Faccio questa premessa perché la relazione, qualunque sia la terapia che si scelga per il trattamento del trauma, è l’unico elemento imprescindibile su cui puntare sempre.
Non sono un tecnico (o meglio, non solo), sono uno psicoterapeuta che sceglie gli strumenti da utilizzare all’interno del proprio lavoro clinico così come lo scultore o qualsiasi altro lavoratore sceglie il proprio strumento che gli consenta di arrivare al risultato che aveva in testa.

A questo proposito, la cornice all’interno cui mi muovo nel mio lavorare con il trauma è di matrice cognitivo costruttivista che, come scritto in precedenza, è un approccio psicoterapeutico centrato sulla relazione. Gli strumenti che utilizzo e di cui mi servo derivano da scelte fatte all’interno di un percorso che faccio insieme al mio paziente. Il se, il come e il quando, lo scelgo insieme al paziente.

Tra gli strumenti che fanno sicuramente parte della mia “borsetta degli attrezzi” c’è la Terapia EMDR. L’EMDR (dall’inglese Eye Movement Desensitization and Reprocessing, Desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari) è un trattamento terapeutico utilizzato per la cura del trauma e di altre problematiche legate allo stress, soprattutto allo stress traumatico. Basato sul modello dell’elaborazione adattiva dell’informazione (AIP) di Shapiro (1995, 2001), ha un supporto clinico abbondante ed una vastità di evidenze empiriche. Assunto di base dell’ AIP è che in tutti gli esseri umani ci sia un meccanismo naturale che ci porta a risolvere ed elaborare esperienze di vita disturbanti ed inconcludenti in modo appunto naturale. Questo meccanismo che noi abbiamo è quello stesso a cui ricorre l’EMDR, utilizzando a fini terapeutici le componenti disturbanti del ricordo. Visto in questi termini, il trauma è il risultato del fallimento del sistema naturale di rielaborazione dell’informazione, fallimento che può avvenire sia per la tipologia di evento (troppo doloroso o troppo persistente e ripetuto) oppure per delle caratteristiche più personali dell’individuo vittima del trauma. quello che succede è che il ricordo viene immagazinato in modo disfunzionale e “congelato” in una parte della mente e racchiuso nelle reti neurali che non comunicheranno con il resto. Conseguenza è che le informazioni connesse al ricordo traumatico continuano a provocare disagio nel soggetto, fino a portare all’insorgenza di patologie come il disturbo da stress post traumatico (PTSD) e altri disturbi psicologici (ansia, depressione, attacco di panico etc..)

Ruolo dell’EMDR in tutto ciò è di fornire uno stimolo affinché la mente faccia il suo naturale processo di autoguarigione. Il lavoro che si fa quindi in un trattamento con EMDR è assolutamente ecologico, dal momento che non aggiunge niente, ma si limita ad aiutare la mente, stimolandola ad eseguire un lavoro che si era precedentemente inceppato.

Andando più nello specifico, quello che permette di fare l’EMDR è aiutare il paziente ad accedere ai ricordi disturbanti e ad elaborarli all’interno del setting terapeutico.
Chi esegue una terapia EMDR è portato a rispettare le Fasi del modello che vanno dalla raccolta della storia anamnestica, alla focalizzazione degli obiettivi, al rievocare le risorse positive dell’individuo, fino alla fase vera e propria (fase 4) in cui il paziente ha la possibilità attraverso i movimenti oculari destra-sinistra (o altri tipi di stimolazione) di desensibilizzare e rielaborare il ricordo traumatico. Nell’ultima fase, quella di chiusura del lavoro con EMDR, cui si arriva quando il processo di rielaborazione ha raggiunto la risoluzione adattiva, l’esperienza è usata in modo costruttivo dalla persona ed è integrata in uno schema cognitivo ed emotivo positivo.

BIBLIOGRAFIA

AMERICAN PSYCHIATRIC ASSOCIATION (1994). Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-IV). Tr. it. Masson, Milano 1996
LIOTTI, G., FARINA, B. (2011). Sviluppi Traumatici. Eziopatogenesi, clinica e terapia della dimensione dissociativa. Raffaello Cortina Editore
SHAPIRO, F. (1995). Eye movement desensitization and reprocessing: Basic principles, protocols and procedures. New York, NY: Guilford Press.
SHAPIRO, F. (2001). Eye movement desensitization and reprocessing: Basic principles, protocols and procedures (2nd ed.). New York, NY: Guilford Press

Cominciare un percorso di psicoterapia significa affidarsi a una scommessa: che le proprie questioni, le proprie preoccupazioni, le proprie sofferenze, che spesso riguardano anche il corpo,
possano essere trattate con la parola. Cosa succede quando la parola è sostituita dal silenzio?

Il silenzio del terapeuta

L ’équipe di Oltre è composta di terapeuti che utilizzano diversi approcci, per permettere un intervento su misura per ogni paziente, sin dal momento dell’invio. Per questo, ogni terapeuta fa un suo uso della parola, così come fa un suo uso del silenzio. In linea generale, ci sono alcuni approcci che implicano una partecipazione più “attiva” del terapeuta, mentre altri implicano un minor intervento verbale: in entrambi i casi, al silenzio è affidato uno spazio particolare.

Può essere esperienza comune intendere il silenzio del terapeuta con vissuti svalutanti come una mancata comprensione, una sensazione di solitudine di fronte al proprio malessere, fino a una percezione di poca empatia. Se da un lato è possibile esplicitare queste sensazioni negative, interrogando il silenzio del terapeuta, dall’altro può essere utile pensare al silenzio come l’offerta di uno spazio libero. La psicoterapia si fonda sulla parola, ma non per forza la parola deve occupare tutto lo spazio della stanza, a discapito del detto comune “Se stai male parlane con qualcuno”. All’opposto, il silenzio può essere un momento di pausa in cui cogliere la possibilità di ragionare su quanto si è detto, o su quanto si dice sempre, su quelle cose di cui ci si lamenta, su quei discorsi che nessuno sembra comprendere appieno. In modo ancora più fondamentale, il silenzio può essere visto come un momento di sospensione della propria necessità di avere risposte, spesso immediate. Il cambiamento, un valore fondamentale per Oltre, non può prescindere da un lavoro di cura che va in profondità, dandosi il tempo di cercare le giuste domande prima ancora delle giuste risposte.

Il silenzio del paziente

Gli stessi vissuti svalutanti nei confronti del silenzio si possono provare quando, in qualità di pazienti, ci troviamo di fronte a un blocco, a un “non saper cosa dire”. È esperienza comune aspettarsi dal terapeuta l’offerta di un argomento di cui parlare: spesso infatti cominciamo un percorso di terapia quando abbiamo provato a ragionare in ogni modo sul nostro malessere e cerchiamo qualcuno che ci indichi precisamente cosa fare per risolvere le nostre questioni.

Se in generale il terapeuta, specialmente se afferente a determinati orientamenti, può proporre degli argomenti che valuta importanti, è più comune che la terapia sia uno spazio in cui si accoglie la domanda del paziente in ogni sua forma, compresi i silenzi. Parimenti al silenzio del terapeuta, il silenzio del paziente è l’occasione di uno spazio in più per poter riflettere su ciò che si vorrebbe dire ma non si riesce a dire, su quali sono i blocchi del proprio discorso, su quale siano gli argomenti difficili da trattare. Ad esempio, il silenzio potrebbe essere il risultato dell’idea che la nostra questione è così difficile che nessuna parola potrebbe spiegarla; oppure, il silenzio potrebbe essere causato da un sentimento di vergogna nello svelare parti di sé che non ci piacciono; oppure, potrebbe essere indice della nostra aspettativa di poterci affidare alla comprensione di qualcuno che ci tolga dalla fatica di doverci interrogare su qualcosa che ci fa stare male.

Un accento tra il “non rispondere” e il “non so cosa dire”

Ognuno dei silenzi illustrati e ognuno degli esempi riportati sopra rende chiaro che oltre alla parola è fondamentale lasciare spazio ai momenti in cui la parola viene sospesa o non arriva.

In conclusione, un’immagine evocativa presa in prestito dal teatro: l’unico modo efficace per mettere l’accento su una parola all’interno di una frase è far seguire a quella parola un attimo di silenzio più lungo degli altri. Provateci.

Ecco che il silenzio diventa un accento, un elemento della comunicazione che spicca rispetto al fiume di parole che si dicono (o si vorrebbero dire) nella stanza della terapia. Il silenzio, sia quando è utilizzato dal terapeuta, sia quando è incontrato dal paziente, permette di mettere la propria attenzione su una determinata parola, una determinata frase o un determinato argomento, aprendo alla possibilità di interrogarsi su cose nuove: farsi nuove domande è certamente il modo migliore per arrivare alle risposte che si desiderano.


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Una domanda semplice, solo in apparenza.

Rispondere a questa domanda, in apparenza semplice e lineare, apre molti altri quesiti su cui è interessante svolgere lo sguardo e riflettere insieme.

Di primo acchito potremmo sostenere che nella stanza di psicoterapia si suppone di poter incontrare un professionista abilitato a svolgere la professione di psicologo e che ha poi perfezionato il suo corso di studi con la specializzazione in psicoterapia. E in effetti, è così: incontriamo uno psicoterapeuta. Solo questo? No.

Non incontriamo solo uno psicoterapeuta ma anche noi stessi per iniziare. Trovarsi in quello spazio vuol dire anche fare i conti con alcuni dei nostri bisogni, alcune dei nostri timori e molte delle nostre speranze.

Temiamo di poter non essere compresi o giudicati anche se speriamo che quella persona, quello psicoterapeuta possa aiutarci ad uscire da un momento di difficoltà. Speriamo che quella persona possa sostenerci, starci vicino. Non sappiamo esattamente cosa troveremo in quella stanza, perché è l’inizio di un grande viaggio che parte da noi, dalla precisa scelta in un determinato momento della nostra esistenza di mettere un punto e occuparci di qualcosa che ci riguarda da molto vicino.

Due menti che si incontrano

È sufficiente come risposta? Probabilmente no, se consideriamo due aspetti.

In primo luogo, l’evoluzione della psicoterapia come pratica clinica che si occupa della cura della sofferenza emotiva della persona. Dagli anni Ottanta in poi abbiamo assistito ad una grande rivoluzione nel nostro campo e tutti gli approcci tendenzialmente concordano nel considerare come elemento di cura centrale la relazione che si instaura tra terapeuta e paziente.

Questo ci permette di avvicinarci al secondo punto. Da Oltre abbiamo una visione complessa della psicoterapia, in linea con i suoi più recenti sviluppi. Potremmo definirla come una visione relazionale che mette al centro dell’indagine psicologica proprio la relazione che si instaurerà tra terapeuta e paziente. Per cui possiamo aggiungere che in quella stanza incontreremo anche prima i semi e poi i germogli di un nuovo legame, di una nuova relazione che si co-costruirà man mano nelle settimane e nel tempo con il proprio psicoterapeuta. Menti che si incontrano e che danno luogo ad una diade unica, diversa da altre.

Aprirsi alla complessità

Sono quindi tre gli aspetti che dobbiamo attenderci di fare esperienza, l’altro (lo psicoterapeuta), noi stessi e la relazione che si costruirà nel tempo tra le due parti.

Tutto questo fa pensare ad una grande complessità che in effetti sembra essere racchiusa nell’apparente semplice domanda: chi si incontra nella stanza della psicoterapia?


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Perché un colloquio di filtro?

Alla base del nostro modo di fare psicoterapia vi è la convinzione che un buon percorso nasca dall’individuazione e dalla definizione dei bisogni o della sofferenza del paziente, ma questo non è sufficiente. Se la psicoterapia è un percorso a quattro mani, saranno importanti tanto le mani del paziente quanto quelle del terapeuta che lo accompagnerà in questo percorso.

Per questo motivo abbiamo ritenuto indispensabile istituire un colloquio di filtro gratuito, gestito dalla responsabile clinica del centro, la dott.ssa Chiara Camaioni. Il senso è quello di poter creare ad una diade pensata in base ai bisogni del paziente e alle caratteristiche presenti nella nostra equipe.

È attraverso questo modo di pensare e di agire che nasce il nostro percorso pensato con attenzione alla singola persona, anche a fronte di una stessa sofferenza non vi è infatti una traiettoria simile ad un’altra.

I nostri valori

Alla base del nostro modo di lavorare di Oltre vi è la convinzione che la complessità è ciò che caratterizza il nostro essere e la nostra storia: i nostri vissuti, i nostri comportamenti, le nostre emozioni, i bisogni che ci muovono, i nostri obiettivi sono qualcosa che ci differenzia gli uni dagli altri rendendoci unici e irripetibili.

Poter cogliere questa dimensione e poterci lavorare in un’ottica psicoterapeutica, volta al superamento di uno stato di sofferenza o a un lavoro di maggiore consapevolezza di sé, è un processo delicato e per questo motivo abbiamo pensato a una prima fase di colloquio che potesse aprire a diverse possibilità di percorso accompagnati da una figura esperta.

Che ruolo ha il terapeuta che svolge i colloqui di filtro?

Oltre a quanto detto finora, l’aver individuato una singola persona in questo ruolo ha l’obiettivo di essere un punto di riferimento sia per l’équipe ma anche e soprattutto per i pazienti. 

La figura responsabile dei colloqui di filtro infatti rimane disponibile anche a valutare possibili incertezze o ripensamenti successivi a questo scambio.

In una prima fase di ricerca di un professionista potrebbe essere infatti difficile “sapere a chi rivolgersi”, per questo motivo il colloquio di filtro indaga in maniera accurata quelli che possono essere le fantasie, le speranze e i timori di questa scelta.

Posso anche togliermi alcuni dubbi o perplessità?

Certamente, seppur ogni professionista abbia un proprio modo d’essere terapeuta, ci sono spesso diverse domande, timori e perplessità legate a un percorso di psicoterapia. Il colloquio di filtro potrebbe essere un ottimo momento per dare alcune risposte.

Per prenotare il colloquio di filtro puoi scrivere una mail a info@oltrepsicologia.it

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